Je pourrais
faire semblant
d’être moi
Mais je ne serais
pas vrai
Joe Dassin, Et si tu n’existais pas
La sacra arte del Foldare: appplicarsi per apprenderla – gioie lessicali dell’ aver vissuto un pokerista – però poi passare la mano tutte le cazzo di volte (“Tu, alla fine, non giochi mai”, mi fan notar nelle ultime ore voci amiche, dai diversi tavoli verdi della mia vita).
Ritrovarsi a un concerto che aspettavi da un tot con la testa al prossimo altrove; uscire sotto il diluvio, grondando madonne bebop per John Zorn e Bill Laswell – un live di minuti totali 40, netti, comprensivi di Bis che ti lascia di buono solo la certezza che la serata sarebbe stata meglio spesa in almeno altri dieci modi, meno costosi e di cui incredibilmente nessuno include sesso e dintorni – altrimenti il counter arriverebbe almeno a quindici.
Una di quelle finegiornata in cui varrebbe la pena conoscerne almeno uno, che ogni tanto ti salvi da ‘sto naufragio e t’aspetti all’angolo, (s)vestito da Baywatch e con un salvagente, una pizza e un dvd di Guy Ritchie (ma non il remake di Travolti da un insolito destino, che fa obiettivamente cagare).
A che punto è la notte? Aspettare il tram, poi farsela a piedi, gli ombrelli, le pozzanghere, piazza Affari nel silenzio e Joe Dassin in cuffia – Et si tu n’existais pas,Dis-moi pourquoi j’existerais? – coi suoi interrogativi da musicassetta destinati a restare inevasi, come la sua capigliatura.
E Milano che piove e i lampioni che piovono e i binari piovuti e la strada che ti accompagna a casa in un martedì che sa di ultimo del mese ma – cazzo! – novembre è appena iniziato.
Chi scrive ‘sta roba?
Ciao, sono Ila
Rammendo buchi di sceneggiatura da oltre trent'anni